Gothic Story & Cantico dei Cantici (Bibbia) Mix

La luna piena splendeva nel terso cielo notturno. Illuminava la figura di nero vestita del Conte, le tombe del cimitero di campa­gna tra cui egli stava ritto e immobile, e altre spettrali presenze che si muovevano attorno a lui, un po’ a scatti e un po’ danzando.

«Sono venuto nel mio giardino, o mia sorella, o sposa mia» sussurrò egli con lo sguardo perso nel vuoto.

La sua bocca si allargò come in uno spasmo, e i suoi canini scintillarono. Poi, rivolgendosi alle ombre che lo attorniavano, disse: «Ho colto la mia mirra e i miei aromi; ho mangiato il mio favo di miele; ho bevuto il mio vino ed il mio latte. Amici, mangiate, bevete, inebriatevi d’amore!».

Due creature iniziarono a scavare con delle vanghe nella terra morbida davanti ad una lapide.

Dieci ore dopo Marion si svegliò di colpo e si rizzò a sedere sul letto. Aveva la fronte imperlata di sudore gelido.

Reclinò il busto in avanti e, sotto una cascata di capelli neri che le coprivano il volto, bisbigliò: «Io dormivo, ma il mio cuore vegliava».

Poi raddrizzò la schiena e spostò i capelli ai lati del volto pallido con ambedue le mani. Il vento primaverile muoveva con delicatezza le tende rosa della finestra della sua camera. Guardò nel buio della notte là fuori. Distinse vagamente la sagoma dell’alto ciliegio piantato in giardino. In quel preciso istante, sentì arrivare alle sue narici il profumo dei suoi fiori.

Come se qualcuno fosse stato presente nella stanza, la ragazza disse: «Sento la voce del mio amico, che picchia e dice: “Aprimi, sorella mia, amica mia, colomba mia, o mia perfetta! Poiché il mio capo è coperto di rugiada e le mie chiome son piene di gocce della notte!”».

L’Ombra del Conte aveva attraversato in pochi secondi una distanza immensa. Stava con le mani aperte e la bocca spalancata appoggiate al legno della porta dell’amata. Il cane incatenato alla cuccia situata sul prato antistante la casa emetteva dei lunghi dolorosi guaiti. La luna sparì dietro a una nuvola. Dall’erba salì un’innaturale foschia.

La giovane donna continuò a parlare tra sé e sé: «Io mi sono tolta la gonna; come me la rimetterei? Mi sono lavata i piedi; come l’insudicerei?».

Si lasciò scivolare giù dal letto. Per un attimo indugiò di lato ad esso con una mano appoggiata al lenzuolo spiegazzato. La camicia da notte di seta color argento che indossava le scendeva fino a sotto le ginocchia. Si guardò i piedi nudi con perplessità. Poi, si decise: fece qualche passo e si parò di fronte alla porta che dava sull’esterno. Era come ipnotizzata. Avrebbe voluto aprire. Ma un torpore tratteneva le sue braccia abbandonate mollemente lungo i fianchi. Facendo uno sforzo considerevole, le alzò e si aggrappò alla maniglia. Dalle sue dita stillò qualcosa che, dal profumo, le sembrò essere mirra liquida. Spinse la maniglia verso il basso per aprire al suo amico. La porta adesso era aperta. Ma lì fuori non c’era nessuno. Solo buio pesto. Nebbiolina raso terra che andava diradandosi velocemente. La cuccia con il cane che finalmente s’era acquietato. L’immensa chioma nera mormorante dell’albero di ciliegie. L’amico s’era ritirato, era partito. La donna tornò sui suoi passi ed estrasse dal cassetto di un mobile in massiccio legno di ciliegio una chiave. Poi ritornò verso la porta. Uscì all’aperto. Camminò sul tappeto erboso madido di rugiada, fino a raggiungere la striscia di ghiaia che tagliava in due il giardino. Proseguì, muovendosi sui sassolini angolosi che un po’ le massaggiavano e un po’ le ferivano lievemente la pianta dei piedi nudi. Tutt’a un tratto, si sentì fuori di sé. Si precipitò verso il cancello in ferro battuto. Lo raggiunse. Girò la chiave nella toppa. Lo tirò verso di sé. Si aprì stridendo. La ragazza si gettò nelle strade deserte della città. Cercò il suo amico infilandosi a caso per le vie. Non lo trovò. Lo chiamò. Ma egli non rispondeva.

Due agenti di polizia stavano facendo la ronda notturna in quel quartiere. Erano appostati all’angolo di una via, seduti dentro ad un’automobile ferma. La loro sonnolenza sparì di colpo appena videro attraverso il parabrezza la ragazza entrare di corsa nel riquadro della loro visuale. E subito incespicare. Cadere a terra. Rimanere immobile sull’asfalto. A carponi.

I due si scambiarono degli sguardi sorpresi. Poi, senza esitazione, scesero insieme dall’abitacolo. Si diressero verso di lei. Si fermarono a pochi centimetri da quell’esile figura chinata sulla strada. Si guardarono attorno per vedere se qualcuno la stava seguendo. Ma non c’era proprio nessuno. In quella zona della città, a quell’ora, erano rare anche le automobili.

Uno dei due, alto e corpulento, si tolse il cappello della divisa con la mano sinistra, scoprendo una testa quasi interamente calva, tranne che per una stretta corona di capelli arruffati sopra le tempie e la nuca, e un solitario mulinello rossastro che gli sgorgava sopra la fronte. Si grattò una guancia rasposa con la mano libera. La apostrofò: «Allora? Che ci fai in giro di notte tutta sola e mezza nuda?… Sei forse scappata dall’ospedale psichiatrico?… » Poi, si lasciò scappare una risatina.

Lei, sempre rimanendo a quattro zampe, girò la testa verso di lui e lo guardò attonita, come se quell’uomo gigantesco fosse uscito dal nulla. Anche l’altro, magro e dal viso affilato come un rasoio, le si materializzò davanti. Sogghignava soddisfatto. I due si misero a guardarla con occhi ingordi.

Allora, come di comune accordo, i due scattarono, l’afferrarono e la tirarono su. Quello grasso, bloccandole le braccia dietro la schiena, la spinse verso un vicolo. Quello magro le stringeva delle dita d’acciaio dietro al collo.

Il vicolo in cui si infilarono era strettissimo. Cieco. Maleodorante. Vi era accatastata lungo i suoi fianchi ogni sorta di rottami e immondizie. Un gatto sibilò, saltò giù da un bidone e sfrecciò verso lo sbocco.

Il poliziotto grasso si fermò e le bloccò con ancora più forza le braccia. Le fece spalancare le gambe, spingendo con le grosse scarpe i suoi piccoli piedi indifesi color del latte. Le alitava sul collo. Lei, riscuotendosi all’improvviso, sentì un panico bruciante invadergli il corpo. Ma era troppo debole per fare resistenza. Non riusciva neppure ad urlare.

Il poliziotto magro si slacciò la cintura e si calò i pantaloni.

«Tienila ben stretta, Joe. Ci metto un attimo. Poi tocca a te.»

In quel preciso momento, un fascio di luce squarciò il buio.

«Cosa diavolo sta succedendo qui?» urlò qualcuno dall’apertura della stradina infernale. Dalla voce, i due capirono che doveva trattarsi di un giovane uomo.

«Non sono affari tuoi. Vattene!» disse l’agente magro, tirandosi su i calzoni e contemporaneamente iniziando ad estrarre la pistola dalla fondina.

«Sì, sparisci» aggiunse l’altro, «se non vuoi metterti nei guai. Siamo due agenti di polizia!».

Con gli occhi accecati dalla luce, i due riuscivano a vedere a malapena la persona a pochi metri da loro. Ma il fascio luminoso si spostò e allora scorsero la figura di un uomo dalla corporatura atletica, che impugnava con la mano sinistra una torcia elettrica e che con l’altra gli puntava addosso la canna di una pistola.

Non se l’aspettavano. Per qualche secondo rimasero entrambi paralizzati. Quello grasso, dopo avere deglutito, parlò, cercando di imprimere alla sua voce un tono di calma e sicurezza. «Non ti conviene sparare. Siamo due contro uno.»

«Non m’importa!» gridò il giovane. «Lasciate andare la ragazza o farete una brutta fine!»

«Okay, okay» disse allora l’agente che torceva le braccia della ragazza. «Non è il caso di agitarsi! Ci stavamo solo divertendo un po’ con questa puttana in calore… Le stavamo facendo un favore. Ma se tanto ci tieni, adesso ce ne andiamo.»

«Sparite immediatamente, porci!!» gridò ancora più forte l’uomo con la torcia. A quel punto, fece partire un colpo di pistola. Il vetro di una finestrella sul fianco del fatiscente edificio a destra dei due poliziotti andò in frantumi. Schegge di vetro piovvero a un metro e mezzo da loro.

I due erano dei vigliacchi. Il sangue gli si raggelò nelle vene. Il grasso lasciò la sua presa. Il magro si allacciò la cintura. Senza aggiungere parole, si precipitarono verso l’uscita del vicolo. Passarono accanto a quell’individuo emerso dalla notte senza neppure osare guardarlo di sbieco. Attraversarono la piazza di corsa. Piegarono nella strada in cui si trovava la loro automobile. Si buttarono dentro all’abitacolo. Quello magro si aggrappò al volante e fece partire il veicolo a tutta velocità.

Il rombo del motore venne inghiottito velocemente dal silenzio di quella periferia di città profondamente addormentata. L’uomo entrò nel vicolo e s’avvicinò alla ragazza. La illuminò. Stava distesa al suolo appoggiata sul fianco destro. Le sue armoniose, esili gambe d’avorio erano sovrapposte e piegate verso il torace, le braccia sopra la testa, i capelli sparpagliati sulla faccia e sul pavimento. Respirava affannosamente.

«Su» disse il salvatore sconosciuto, accovacciandosi accanto a lei. «Non avere paura. Ora sei al sicuro. Vuoi che ti porti in ospedale?»

«No, no, voglio tornare a casa» disse lei, facendo uscire le  parole dalla bocca come in un soffio. «Lasciami riposare un attimo» aggiunse sempre sussurrando. «Ma, ti prego, spegni quella luce. Mi disturba.»

«D’accordo… Come vuoi.»

Ora l’uomo era cieco. Ci vollero un bel po’ di secondi prima che i suoi occhi si abituassero a quel buio. La luce dei lampioni della piazza strisciava in quel budello urbano rischiarandolo molto debolmente.

«Io abito in una delle case che s’affacciano sulla piazza» disse il giovane uomo. «Ero ancora sveglio, perché soffro d’insonnia. Ho sentito dei rumori, mi sono affacciato alla finestra, e ho visto che due uomini trascinavano una ragazza in questo vicolo. Ho preso la mia pistola e sono sceso in strada… Questo quartiere è semidisabitato e pericoloso. È solo da una settimana che ci abito. Ma già mi sono pentito di esserci venuto. Purtroppo mi sono dovuto trasferire qui dalla mia città per lavoro e mi sono infilato nel primo posto che ho trovato… Non so cosa tu ci facessi in strada in veste da notte… Sei sonnambula?»

«No, no. Non importa» rispose lei, appoggiando le mani a terra e mettendosi seduta. «Ti ringrazio di essere intervenuto. Mi hai salvato.»

La ragazza ora guardava in faccia l’uomo ed era come se il suo viso pallidissimo sprigionasse un leggero chiarore lunare. «Adesso sto meglio. Riportami a casa, per favore» aggiunse lei, con una voce dolce che, però, per qualche motivo incomprensibile, fece rabbrividire il suo salvatore.

«Dove abiti?»

«A due isolati da qui. In via dei Cedri 13. Nella villa con il ciliegio molto alto.»

«Ah, sì, conosco quella casa. L’ho subito notata appena sono arrivato nel quartiere. I muri di cinta sono alti. Ma attraverso il cancello si vede il giardino, il ciliegio maestoso… È una casa molto curata… Sembra quasi fuori posto in questa triste zona della città… Ora ti ci porto.»

Lei gli porse la mano. Lui gliela afferrò e sentì che era piccola e gelida. L’aiutò ad alzarsi.

Si avviarono verso l’uscita del vicolo. Quando ne uscirono, lei non smise di stringere la mano dell’uomo. E così i due si incamminarono sui ciottoli della piazza invasa da ombre e chiazze di luce elettrica come due giovani innamorati che si tenessero per mano in una passeggiata surreale. L’uomo ora poteva vederle bene il profilo. Lei voltò la testa verso di lui. La ragazza aveva degli occhi di un blu molto scuro, che risaltavano sul viso ovale immacolato, incorniciato dai lunghi capelli corvini. Non disse niente. Sorrise timidamente a labbra strette. Lui le ricambiò il sorriso e pensò di non avere mai visto una donna di una bellezza tale. Ma, forse, l’adrenalina generata dagli eventi appena occorsi falsavano parzialmente il suo giudizio.

Camminarono senza dire neanche una parola, immersi nel silenzio assoluto delle strade vuote e, dopo alcuni minuti, raggiunsero l’ingresso della villa.

«Non credo che tu sia ferita» disse l’uomo. I due erano fermi uno di fronte all’altra in quella strada senza lampioni. Due silhouette con sullo sfondo le inferriate del cancello, dietro a cui c’era la villa dalle finestre illuminate. La mano destra di lei era ancora nella sua sinistra. «Ma immagino che tu sia frastornata… Posso lasciarti qui senza dovermi preoccupare?… C’è qualcuno in casa?»

«No» rispose la ragazza. «Mio marito non è in casa. Sono sola. Ma stai tranquillo. Mi sento bene.»

«Ah, sei sposata?» disse l’uomo. E, cercando di non tradire nella voce una lieve delusione, aggiunse: «E come mai non è in casa, a quest’ora?».

«Mio marito è un medico. Spesso lavora di notte in ospedale. Ma non tarderà ad arrivare.»

«Ah, bene, un medico. Dunque sei in buone mani.»

Il giovane uomo sorrise. Le lasciò la mano e aggiunse: «Be’, spero di rivederti ancora, in qualche momento…  Naturalmente in una situazione migliore… Mi raccomando, non uscire più di notte in questo modo.»

«No, no» disse lei, chinando un po’ il capo.

La ragazza spinse il cancello. Uscendo, non l’aveva richiuso. Solo in quel momento il cane nella cuccia iniziò ad abbaiare debolmente. Lei girò la chiave nella toppa e la sfilò. Dall’altra parte delle sbarre d’acciaio, disse: «Ti ringrazio ancora. Mi hai salvata da un terribile incidente. Io mi chiamo Marion Bellevue. Cerca il mio numero di telefono sull’elenco, e chiamami domani pomeriggio. Devo trovare un modo di ricompensarti».

«Ti ringrazio. Ti telefonerò. Ma non devi ricompensarmi.»

«Tu come ti chiami?» chiese lei.

«Adriano.»

«Allora buonanotte, Adriano. Ci sentiamo domani.»

La ragazza si voltò e si diresse verso la villa. L’uomo, guardandola, ebbe l’impressione che non appoggiasse nemmeno i piedi per terra. Sembrava una vela che solcasse un mare calmo. La donna virò a destra e scomparve nell’ombra del giardino. L’uomo sentì che diceva qualcosa al cane. E poi più niente. A quel punto se ne andò.

Marion carezzava la testa del cane.

«Non dovrebbe incatenarti» gli disse. «Lui lo sa che io non sono d’accordo.»

Gli staccò la catena dal collare. Il cane corse fuori dalla cuccia scodinzolando. Si precipitò ad annusare uno dei cespugli che crescevano lungo i muri del giardino. La ragazza entrò in casa attraverso la porta rimasta socchiusa della sua stanza da letto. Raggiunse il soggiorno e si sedette su un lungo divano color verde scuro. Tenendo la sua mano destra dentro la sinistra, la guardò assorta come se si trattasse di un tenero animaletto. Forse s’addormentò. In seguito, forse si svegliò. Alzò la testa e vide che in piedi davanti a lei c’erano tre donne che la guardavano. Indossavano tutt’e tre dei vestiti neri e leggeri.  Svolazzanti, come se ci fosse stato un vento leggero che li muovesse. Ma non c’era nessuna corrente d’aria in quella stanza. La donna a sinistra aveva dei capelli rossi fluenti e degli occhi color verde annacquato, quella al centro una folta chioma di riccioli biondo ramati, e quella a destra una cascata di sottili capelli bianchissimi. Avevano tutt’e tre l’aspetto di donne sui trent’anni. Ma avevano anche un’aria antica. I loro occhi erano quelli di creature che hanno visto scorrere davanti a loro i secoli.

«Io vi scongiuro» disse Marion rivolgendosi al trio. «Se trovate il mio amico, che gli direte?… Che son malata d’amore!»

«Che è dunque, l’amico tuo, più d’un altro amico» disse la donna dai capelli nivei, «che così ci scongiuri?».

«L’amico mio è bianco e vermiglio» rispose Marion, «e si distingue fra diecimila. Il suo capo è oro finissimo, le sue chiome sono crespe, nere come il corvo. I suoi occhi paion colombe in riva a dei ruscelli, lavati nel latte, incassati ne’ castoni d’un anello. Le sue gote son come un’aia d’aromi, come aiuole di fiori odorosi; le sue labbra son gigli, e stillano mirra liquida. Le sue mani sono anelli d’oro, incastonati di berilli; il suo corpo è d’avorio terso, coperto di zaffiri. Le sue gambe son colonne di marmo, fondate su basi d’oro puro. Il suo aspetto è superbo come i cedri. Tal è l’amor mio!».

Dieci ore prima. Il Conte osservava i suoi seguaci che stavano finendo di divorare l’uomo sepolto di fresco che era stato estratto dalla tomba. Lui non era come loro. La carne di cadavere non lo nutrita. Egli necessitava del sangue di persone vive per sfamarsi. Meglio se di giovani donne.

Egli alzò lo sguardo verso il cielo gremito di stelle e pensò alla distanza che lo separava da Marion, la sua amata. Per ora doveva accontentarsi di raggiungerla solo per fugaci momenti proiettando oltre l’oceano non l’anima, che non possedeva, ma il suo doppio, formato di nebbia, stille di sangue, ombra e desiderio. Ma, un giorno, l’avrebbe raggiunta davvero. Da quando era stato risvegliato e aveva ricordato tutto, non aveva smesso neanche per un attimo di organizzarsi a tal scopo.

Un lieve chiarore all’orizzonte annunciò che presto sarebbe spuntata l’alba. Le creature spettrali che lo accompagnavano si fecero inquiete e cominciarono ad allontanarsi dal cimitero. Lui poteva esporsi alla luce senza problemi. Ma, certo, non la gradiva particolarmente. Allora si curvò in avanti, si accovacciò. Il suo corpo fu scosso da violenti tremori. Si trasformò in un lupo giovane e forte. La bestia alzò il suo muso verso la luna, le zanne scoperte, la lingua sgocciolante. Ululò. E l’ululato riecheggiò per molti chilometri. Poi si mise a correre velocemente, inventrandosi nella notte.

Nicholas parcheggiò l’automobile nel garage privato. All’ospedale era stata una notte dura. Aveva solo voglia di fare una doccia e andare a dormire. Uscì dall’abitacolo. Percorse il corridoio che immetteva in un piccolo vestibolo. Aprì la porta del soggiorno e vi entrò. Vide la testa e le spalle di Marion che era seduta sul divano. I capelli neri erano disposti in modo da lasciar scoperto parte del suo collo d’alabastro bianco.

«Marion, sono le cinque del mattino. Cosa ci fai già alzata?»

La donna non rispose. Era rimasta immobile. Nicholas girò attorno al sofà e si fermò davanti a lei. Sua moglie aveva la testa leggermente reclinata, gli occhi chiusi, le mani unite in grembo, la colonna vertebrale ben diritta e aderente allo schienale. Le labbra le si muovevano leggermente senza staccarsi quasi l’una dall’altra ed emettevano un’indecifrabile litania, come se stesse sussurrando qualcosa ad un neonato nella culla per farlo addormentare. Ma era lei che stava dormendo.

Nicholas notò delle escoriazioni sulle gambe e sulle braccia. Dei lividi su ambedue gli avambracci.  Cosa le era successo? Era forse uscita di casa?  Non sarebbe   di certo stato sorprendente. Oramai era da circa da due mesi che Marion soffriva di stati allucinatori e di sonnambulismo. Gli esami clinici non avevano rivelato nessuna causa organica alla base dei suoi deliri. Comunque, era malata. Sarebbe dovuta essere ricoverata in una clinica psichiatrica. Ma Nicholas non faceva altro che procrastinare l’internamento. Come medico sapeva benissimo che quella fosse la cosa più sensata da fare ma, in quanto marito, non se la sentiva. Sperava irrazionalmente che così come la sua donna s’era improvvisamente ammalata nello stesso modo repentino si fosse ristabilita. Nicholas andò in bagno a prendere dell’alcool per disinfettarle le ferite. Pensò che sarebbe stato obbligato a nascondere alla moglie la chiave del cancello. E che, soprattutto, non avrebbe più potuto rimandare a lungo il suo ricovero. Era da vero irresponsabile tenerla in casa. E così spesso da sola.

Mentre medicava quel pallido manichino seduto compostamente, Nicholas ricordò gli inquietanti eventi accaduti negli ultimi tempi.