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Vita (a Vignette) di un Mercurio in Incognito

Indice - 2019

12 marzo 2019

Scendendo da casa mia che si trova in Città Vecchia in Piazza Grande incontro il mio vicino di casa che studia la Kabbalah e che tira avanti con le droghe. Sta in piedi fermo sull’acciottolato. Ha una lattina chiusa di birra in mano e l’aria abbattuta. Senza preamboli blocca il mio camminare veloce chiedendomi: «Ma perché la vita è così dura?». Io gli dico che lo è per tutti. Che siamo animali. E come gli animali soffriamo. Ma che per giunta abbiamo un certo tipo di coscienza che ci rende più sensibili a tutto e anche sofferenti per il senso della vita che ci porta pure a farci questo tipo di domande. Dopo esserci salutati, mentre cammino in direzione della stazione dei treni, a un certo punto ho davanti a me una ragazza sui sedici anni coi pantacollant che mettono in risalto le gambe belle come sono belle le gambe di tutte le ragazze del mondo. Eppure ha il viso imbronciato e lo sguardo indifferente di chi non ha nulla di divertente per la testa. E penso che è strano. Ma anche normale. E penso che l’uomo è un animale, certamente, e anche no, per niente. Che l’uomo è stato strappato dalla Natura e dentro di sé porta una lacerazione che non si rimargina. E che cerca sempre un abbraccio che lo rimetta al mondo. E che, privo di ali, aspira al Cielo. E siccome anch’io sono un uomo, provo amore per tutti gli altri uomini persi nell’infinito. E penso agli angeli o agli dèi che ogni tanto ci sussurrano qualcosa all’orecchio. E agli animali che infinitamente meglio di noi nuotano, corrono, saltano, volano nella foresta. E a tutti i giorni che mi sono stati concessi e che ancora vivrò: occasioni per attingere luce da una fonte segreta inesauribile.

20 maggio 2019

E il Maestro mi disse Davvero vuoi sapere la verità? Io risposi Certo. Lei guardò fuori dalla porta-finestra. Vide un passero appoggiato sulla ringhiera e disse Quello è Nietzsche. Il Maestro disse Non è facile: devi rinunciare ai pregiudizi che ti incatenano, ai pensieri abitudinari disegnati dal pensiero collettivo. Lo vuoi ancora? Io dissi Sì. È qualcosa tipo Matrix? Doctor Strange? La grotta di Platone? Ce la posso fare. Il Maestro disse No. Te lo ripeto: non è per niente facile. Lei, continuando a guardare fuori, vide un altro passero e disse Quello è Lacan. Io dissi Voglio sapere la verità. Va bene, disse il Maestro, allora preparati a diventare puro amore, puro universo. Lei mi guardò e mi sorrise.

22 maggio 2019

Noi passavamo tutto il tempo libero a letto a fare l’amore e ci alzavamo solo per mangiare un boccone o andare in bagno. L’amore all’inizio è passione, fuochi d’artificio – dicono – poi diventa qualcosa di molto più profondo, cioè: noia. Noi questa cosa avevamo deciso di lasciarla molto volentieri a quelli profondi perché noi eravamo superficiali (leggeri) come lenzuola. Se decidevamo che fosse Halloween, ci raccontavamo storie di fantasmi, se decidevamo che fosse Natale, accendevamo le lucette natalizie perennemente presenti nella stanza. Non importava la stagione. L’amore crea. È lui a dettare le regole. Il passero Nietzsche, al di là della porta-finestra appoggiato alla ringhiera, diceva Il tempo è circolare: tutto si ripete. Tu dicevi Sì, ma ad ogni giro cambia qualcosa. Io ti raccontavo della vita e della morte. E al di là delle mie idee filosofiche ero certo che in un modo o nell’altro ti avrei ritrovata sempre. E infatti era già così. Ti avevo trovata.

25 maggio 2019

Nel supermercato, l’uomo che non vuole essere uomo ha una parrucca corvina da donna, un accenno di seno (suppongo finto) e indossa indumenti bene o male da donna. È serio/a. (Lo è ogni volta che lo vedo.) La cassiera che lavora da una vita in questo supermercato scansiona prodotti all’infinito; prende i soldi, dà il resto. Come si fa a vivere tutta la vita così? L’uomo di una certa età – il corpo dalla forma di un fagotto – sfreccia sulla sua sedia a rotelle motorizzata sotto il tratto di portico davanti al supermercato. Non ha l’uso delle gambe. Se ne sarà fatto una ragione? Chissà chi lo vede ancora come il bambino che era una volta e che ha ancora bisogno di coccole? Siamo tutti qua, ognuno con i suoi limiti. Certi a fare i duri perché sono sani o perché sono giovani e belli (inconsapevoli dell’effimero) o perché il cervello gli regge ancora. Comunque. L’unico rimedio a tutto lo sconforto e dolore che ci accomuna, per quanto possa sembrare banale, è sempre e solo l’amore.

20 giugno 2019

Veniamo dal liquido amniotico, dal brodo primordiale, dall’esplosione di una stella, dal Big Bang – forse – se c’è mai stato, sennò dall’eternità. Andiamo verso l’estate. E poi verso il Natale. Perché il mondo è una giostra, piena di lucette colorate. Andiamo, se Dio vuole, verso una comprensione sempre più vasta delle cose. «Da dove veniamo, veramente? Dove andiamo, veramente?» mi chiedi. «Io vengo da un sogno che facevi da bambina quando giocavi con le Barbie o al gioco del mondo» ti rispondo. «Tu vieni da un sogno che io facevo da piccolo quando nelle notti estive a Valencia guardavo il cielo stellato». Andiamo verso il Mistero. Il Mistero è benigno.

25 giugno 2019

Mi ricordo quando da piccolo, partendo da Locarno, viaggiavo con la mia famiglia in automobile fino a Valencia. Mio padre (Sagittario), al volante. In certi punti di ristoro in cui ci fermavamo lungo il percorso c’era una luce abbagliante. Strizzavo gli occhi. Luce luce luce. Pazzesco. Il vento caldo mi afferrava e mi trascinava via. Viaggiare sulle strade non è paragonabile a prendere l’aereo. Ho tanti ricordi delle cittadine francesi e spagnole in cui facevamo sosta. In particolare ricordo i frullati alla frutta di Aix-en-Provence. E anche le sue inquietati streghe (proprio così, donne vestite da streghe, streghe vere e proprie che passeggiavano per la città sghignazzando e non era Halloween; non ho mai capito chi fossero). A Valencia, in città, il caldo era davvero torrido. Adesso tutti si lamentano (e si lamenteranno) per l’anticiclone africano. E per l’estate tutta. Non dico che non abbiano ragione. Ma nella mia esperienza-percezione non associo l’alta temperatura al surriscaldamento globale o in generale a qualcosa di negativo. La relaziono ai tempi (leggendari) della mia infanzia-adolescenza. E poi in campeggio era fantastico stare tutto il giorno in costume da bagno. Al mattino, al mare, sempre diverso – a volte burrascoso, a volte liscio come l’olio, trasparente come vetro, torbido o pieno di spazzatura e alghe; ma era sempre divertente; e io mi sentivo Nettuno. Al pomeriggio io e mio cugino Jorge (Sagittario) andavamo in pineta finché non scendeva il sole; il mio corpo (come quello di mio cugino) era nero come il carbone; i miei capelli ingarbugliati, impossibili da pettinare; il mio corpo sempre salato. L’amicizia, giocare e scoprire la natura erano le uniche cose che contavano. Di sera, davanti alla tenda, a volte ascoltavo mio zio Antonio (Gemelli) parlare concitatamente di esoterismo con mio zio Miguel. Ci capivo poco. Ma ero rapito. Ed è da lì – certamente – che il mago in me ha iniziato a farsi strada. Una notte un amico di mio zio Antonio, mentre era in corso una conversazione ermetica, mi scrisse un messaggio su un pezzettino di cartone che ancora adesso conservo all’interno di un libro di occultismo comperato in Spagna quando ero un ragazzino. Io allora stavo sempre zitto. (Non ero certo come ora: ero una piccola Vergine timidissima.) Lui forse poteva vedere l’aura (o forse no, non importa, così si diceva e così per me è rimasto vero nella leggenda). Cosa mi scrisse, non lo dico. Ma credo che su di me avesse ragione. Di notte prima di andare a dormire guardavo il cielo stellato con mio zio dell’Ecuador (Ariete). Una notte vedemmo quello che non poteva essere che un ufo. Al di là di questo facevamo tante ipotesi sulle stelle e sull’universo.

3 luglio 2019

Dentro a un furgone, con la mia famiglia allargata, ho percorso tutte le tue strade, Spagna – dalla Catalogna, attraversando la Mancia, fino all’Andalusia. Nelle soste di riposo mi sono perso non so quante volte in stradine sterrate tra i cespugli. Mi allontanavo mi allontanavo, sentendo le voci dei miei sempre più fioche. Solo cicale. Solo calore. Solo l’arcaico richiamo del dio Pan. E in ogni cittadina in cui ci fermavamo per pranzare o dormire mangiavo il gazpacho. Ho mangiato il gazpacho di ogni tua città, paragonando tutte le sfumature di sapore. Ciò che mi ha portato dove sono adesso è un dio bifronte che mi vuole sempre in volo tra due poli – in me c’è una differenza di potenziale elettrico come quella che genera i fulmini. (“Il fulmine governa ogni cosa”, Eraclito.) Ma, sai, comunque vada, io ti appartengo. Tuo è il mio corpo. E le parole e i ragionamenti che pronuncio ogni giorno in questa lingua di Dante è sempre una traduzione approssimativa dei tuoi fiori, insetti, piante, cieli, onde, odori, persone semplici, fiere e realissime. Ed è ciò che di me, più che qualsiasi mio ragionamento, perdurerà, io credo proprio. L’eco del suono della siringa del dio silvestre dentro la calura estiva. (La cui morte avvenuta 2000 anni fa in concomitanza con l’avvento del Cristianesimo fu annunciata da Plutarco, “Il grande dio Pan è morto!”, rifacendosi a un episodio narratogli da un certo Epiterse. Ma Pan non è mai morto. Finché rimarrà un fiore o una fronda ci sarà.)

5 luglio 2019

Ho vissuto tutto e il contrario di tutto. Una madre maga. Una madre insostenibile. La ricchezza e la povertà. E mi ricordo che a Tenerife con un cappellino in testa e gli occhiali da sole mi allontanavo dal centro turistico. (Il paradosso di quell’isola era che l’oceano era quasi inaccessibile, le spiagge erano sassose – di sassi vulcanici; l’acqua faceva paura. La gente nuotava nelle piscine degli alberghi.) E camminavo camminavo, fin dove finiva tutto. E c’erano strade che portavano non so dove. Attorno a me sabbia, aridità, strane piante e rettili. Aria arroventata. E in quel niente mi interrogavo. E in quel deserto mi cercavo. Ed è da quando sono un ragazzino che cerco il senso di tutto. Perché l’unico vero mestiere per me è questo. (La relazione dell’uomo col Mistero.) Nel centro turistico, di sera, il basso dell’orchestrina faceva sempre lo stesso giro. E mi rendeva prigioniero. Sognavo la libertà che fa precipitare nel sogno ad occhi aperti del mondo, che a sua volta immerge nell’amore più profondo. Nel sottomarino turistico c’era grande umidità. Turisti stipati in una scatola di sardine subacquea. Un giro nei fondali per vedere niente. Ma per me lì sotto c’erano ondine. E io sono un frutto di un cactus dell’isola spagnola (chumbo), geograficamente africana, un insetto che vola contro un cielo abbacinante, una strada che, percorrendola tutta, porta fino al vulcano dormiente. Entrando e scendendo c’è il cuore rosso palpitante della Terra. Parlami dal cuore delle cose, se mi vuoi parlare. Io capisco e rispondo meglio così.

14 luglio 2019

Mentre la luce si affievolisce, il cielo è tutto uno sfrecciare e garrire di rondini. È un addio quasi disperato al sole. Come se il sole non dovesse tornare mai più. Le scie bianche degli aerei altissimi lassù mi fanno pensare ai miei viaggi verso la Spagna. Il cielo abbraccia completamente il mondo e mi fa sentire vicino all’origine. Vedo tutto ciò dalla finestra del lavatoio dell’ultimo piano della palazzina in cui vivo. C’è odore di detersivo e di cibo. Gli odori amplificati dal calore estivo producono in me una sensazione indecifrabile – sento un animaletto morbido e arcaico che si rigira nel sonno dentro la mia pancia. E da quassù ogni estate è la stessa. Con le sue montagne verdi materne e uno scorcio di lago. Ogni estate il mio io di fuoco scaraventa scintille attorno me. Fuoco nel fuoco canta per sempre Eros Ramazzotti nella Piazza Grande. Le luci del palco nel buio della notte della rassegna musicale Moon and Stars sono fantastiche. E io sono quello uscito da un’odissea. E partito di nuovo da Itaca per un’altra odissea. In ogni isola c’è una Penelope. Madre. O donna da amare. Un’idea impossibile da consumare fino in fondo. Sempre così vicina. Sempre così lontana. Trascendente. E anche se sono un astrologo, mentre ascolto la musica portata dal vento caldo, non penso ai pianeti: guardo più lontano che posso e vedo soltanto il Natale. Lì c’è una soluzione ricorrente. Un obiettivo esistenziale. L’altra faccia dell’estate. E per un attimo infinito sono solo il bambino che non ho mai smesso di essere. E non penso più a niente.

16 luglio 2019

Mio padre è stato un calciatore. Io non ho mai imparato a giocare a pallone. Quando mio padre tentava di insegnarmi sotto casa e mi calciava la palla io, con suo disappunto, la raccoglievo da terra con le mani. (L’uso delle mani, artistico, è sempre stato il mio forte.) Quando in cortile, durante la ricreazione, nella scuola elementare svizzera, i bambini giocavano a pallone, io venivo sempre lasciato da parte perché considerato incapace. Non lo vivevano come un semplice gioco, ma come se giocassero ai campionati mondiali di calcio dei bambini. C’era poco da divertirsi. Proibito perdere. I “deboli” dovevano essere scartati. Durante un’estate a Valencia, sempre da bambino, ricordo che un giorno, allontanatomi dal campeggio dove trascorrevo la vacanza, nell’aria salata, tra case squadrate, il sole abbagliante, guardavo dei bambini in un polverone che tiravano calci a un pallone. Dopo un po’ uno di loro si avvicinò a me e mi disse: «Vuoi giocare con noi?». E io: «Non sono capace di giocare a pallone». E lui: «Non importa; gioca lo stesso con noi». Dopo un po’ che mi ero gettato nella mischia, lo stesso bambino, convinto, mi disse: «Non è per niente vero che non sai giocare!». E così passai il pomeriggio a giocare con loro (senza che nessuno avesse niente da obiettare). Non ricordo bene, ma credo che non ci fossero neppure due porte. Probabilmente ce n’era solo una (costituita da due sassi). E quali fossero le regole esatte del gioco solo dio lo sa. Ecco, anche questa è una delle cose che mi ha fatto e mi fa amare la mia terra natia. A nessun bambino importava vincere o perdere. Vincere era giocare, stare insieme, divertirsi. Più crescono organizzazione e intelletto e più l’ego (con i suoi conseguenti conflitti) si gonfia. Trovare un equilibrio tra intelligenza (a qualunque livello) e vita vera è davvero difficile. Per me, anche se ragiono molto, su questo non ci sono dubbi: viene prima la vita. (E a ciò contribuisce certamente la mia origine.) Solo da essa – come la pianta con i suoi fiori e frutti dal terreno – può crescere qualcosa di autentico e buono. (E, non va dimenticato, gli spagnoli giocano professionalmente a calcio benissimo.)

18 luglio 2019

Al telefono, sorella, mi dici che ricordi di essere stata completamente immersa nella serenità quand’eri bambina un’estate all’isola d’Elba. Io facevo foto da angolazioni stranissime a nostra mamma e a te. Nella piazzetta di Capoliveri per esempio ti dicevo Corri fin laggiù! E tu correvi come il vento. E io ti facevo una foto dove tu eri un puntino nella piazza sotto l’azzurro. Cose così. Un po’ da matto. Tu avevi un vestitino rosa, i capelli lunghi, scompigliati e scurissimi. E in effetti ti ricordo piena di gioia. E come canta Daniele Groff: “Essere grandi non serve a niente”. Se non – penso – a usare la propria forza per salvare la parte indifesa nostra e degli altri – la rosa in noi. E abbiamo fatto così tanti chilometri a piedi insieme da avere probabilmente letteralmente percorso la lunghezza dell’equatore. (E forse anche di più.) E a nessuno ho parlato così tanto come a te. E con nessuno ho combattuto così tanto contro forze titaniche avverse come con te. Poi, com’è necessario, i nostri cammini si sono divisi. Ma solo in apparenza. Abbiamo lo stesso segno. Lo stesso angelo. Tu hai assorbito tutta la mia filosofia (una volta completamente in funzione della magia) e l’hai elaborata a modo tuo, avvicinandoti per conto tuo sempre di più a ciò che penso io. E se in YouTube parlo della “leggendaria asse” tra Vergine e Pesci sto parlando anche di te. E se partirai lontano, il lontano probabilmente mi chiamerà. Siamo facce diverse della stessa medaglia. Ti dico Facciamo un gioco: io ti dico (prevedo per te) qualcosa di bello per il tuo futuro; poi tu lo fai per me. Lo facciamo. E tutt’a un tratto siamo di nuovo nell’Isola. Che non c’è. Non più, in effetti. Ma che c’è ancora grazie a noi. E nostra mamma un po’ in disparte – ancora in sé, magica e buona – ci guarda soddisfatta. Assieme, sorella, aggiustiamo la rotta sbagliata dell’universo.

20 luglio 2019

Mentre viaggiavo di notte sul treno da Friburgo a Locarno, leggevo la Rayuela (Il gioco del mondo) dello scrittore argentino Julio Cortázar, il romanzo di cui il mio professore universitario di spagnolo aveva chiesto a noi allievi di studiare certi passaggi. Ma per me non era certo un compito. Era un piacere, un rapimento, un libro da leggere completamente, “un grimoire compliqué et fleuri”, utilizzando una definizione di Proust (che avrei letto più avanti). Il gioco del mondo è un gioco che fanno i bambini (soprattutto le bambine) che porta dalla Terra al Cielo. Una volta successe che decisi di tornare a casa per il fine settimana ma l’inverno era polare e i binari dei treni erano ghiacciati. Il treno arrivò in stazione a Friburgo in ritardo. Persi la coincidenza da Berna per Locarno. A Berna, mentre attendevo il treno seguente in un ristornate aperto tutta la notte portai avanti la mia lettura de La Divina Commedia. (Che sospensione del tempo! che pace! in un liquido amniotico notturno e di luce artificiale!) Nei miei viaggi di 4 ore e passa dalla città universitaria a casa mia ho letto essenzialmente queste due opere. Anche la Commedia racconta di un viaggio dalla Terra al Cielo. Ai tempi non me ne accorgevo. Ma questi due libri lontanissimi tra di loro erano analoghi. E segnavano con precisione la mia prerogativa, la mia ricerca, il mio sogno, il mio futuro. Non c’è Cielo senza Terra. E viceversa. E io dopo, come Hermes, ho sempre oscillato tra due poli opposti e complementari. Olimpo e Mondo dei Mortali, Apollo e Dioniso, ragione e magia, conoscenza e amore. E io sono ancora e per sempre quel ragazzo sul treno che continua a viaggiare nel limbo della notte ghiacciata alla ricerca del cuore enigmatico della realtà. Con un libro magico tra le mani.

24 luglio 2019

Per decenni ci massacrammo a parole. Ironizzammo e ridemmo. Ci amammo a distanza. Ci fotografammo all’infinito per mostrare le nostre bellezze più o meno artificiali al mondo. Ma si sa che ogni generazione è diversa e che i ragazzi si ribellano alle usanze degli adulti. E così noi ad un certo punto spegnemmo tutto ciò che era possibile spegnere. Il nostro ritmo divenne soprattutto quello del sole. E del cerchio delle stagioni. Tornammo in piazza, sotto il cielo stellato, a parlare senza stancarci nelle lunghe sere d’estate. Leccando gelati. Senza più sguardi incatenati a schermi di telefoni. Tornammo nei campi di grano. Facemmo sparire i confini. E il denaro. E il dolore e l’orrore che da quando se ne aveva memoria erano le caratteristiche principali della storia. Impossibile, direte, lo so. Ma non si può capire se non essendo qui. E qui noi siamo. Nel pianeta che è un tutt’uno con l’immenso. Nel luogo dove le risposte te le dà un sasso o un fiore. Nel culmine del tempo che si fa oceano.

27 luglio 2019

A volte, a Friburgo (Svizzera), quando di notte tornavo dall’università e scendevo dal bus alla fermata più vicina a casa, c’era una nebbia perfetta. Non vedevo quasi nulla. Solo in alto qua e là qualche chiazza gialla delle lampade dei lampioni. In certi casi una figura assolutamente indistinta di qualcuno appariva sul marciapiede a qualche passo da me e, dopo essermi passata accanto, tornava ad essere inghiottita dal nulla. Un fantasma. Per arrivare a casa era necessario il radar di un pipistrello. Tastare letteralmente i muri. Fidarsi non della vista, ma della mappa cerebrale. Esperienze da cieco. Il mio compagno di appartamento (Ariete) diceva: «Io trovo la nebbia rassicurante e protettiva». La nostra casa era ai margini della città. Dietro ad essa solo campagna. Nei week end, in certi casi, ben imbacuccati, andavamo insieme a passeggiare nel bosco. Tra gli alberi c’erano tanti laghetti-pozzanghera ghiacciati. Picchiandoci sopra con le scarpe, li frantumavamo. L’aria era pungente e pura. Il mio compagno di appartamento prima di andare a dormire beveva sempre un bicchierino di Zabov e uno di amaretto di Saronno. Spesso per cena cucinava la pizza per tutt’e due facendo l’impasto personalmente. Diceva: «Se mi va male, al limite di mestiere farò il pizzaiolo». La mia specialità invece era il miglio al forno col pomodoro. La prima volta che glielo proposi lui era scettico, ma poi gli piacque. A quei tempi io ero nella mia fase radicalmente esoterica. Credevo senza alcun dubbio nella reincarnazione, nei corpi astrali, nelle auree, negli angeli-alieni in astronave e in una trasmutazione prossima ventura del pianeta che chiamavo “prossima era”. Il mio compagno d’appartamento invece era profondamente cristiano. Seduti vicino alla finestra della cucina che dava sulla vegetazione, sul buio, sul ghiaccio, sul niente, passavamo serate intere a discutere sulle nostre visioni in contrasto. (Allora il gelo era vero. E il caldo in casa era una meraviglia.) E quelle nottate erano fantastiche. Tra noi c’era ben poca tensione. Solo dialogo autentico, riflessione. Ci volevamo bene. Ci divertivamo. Ora invece tutti sono in conflitto con tutti. Fino all’esacerbazione. Come se ne andasse della loro vita-identità (perché è proprio così che si vive ogni divergenza di pensiero). E, okay, così sia. Ma io – grazie a Dio – ho conosciuto anche altro. La discussione serena e costruttiva tra amici, senza cattiveria e tronfio ego.

28 luglio 2019

Per esempio il lavoro consisteva nel doppiare uno dei protagonisti del documentario in lingua originale inglese. Nel film c’erano dei zoologi nella foresta che studiavano le scimmie e dicevano cose tipo: “Ehi, Joe, hai notato il comportamento di quello scimpanzé?”. Con me c’erano sempre altri doppiatori più esperti. In particolare mi colpiva uno perfettamente calvo ed emaciato di una certa età dalla voce profondissima. Molto bella. Veniva dall’Italia. Gli italiani in questa cosa ci sanno davvero fare. Può sembrare un lavoretto così. Ma non è per niente facile. Forse è per questo che venivo pagato bene. Dal mio punto di vista anche sorprendentemente troppo. Una volta finito e uscito dagli studi della televisione Svizzera di Comano non prendevo l’autobus (e neanche l’automobile, io non ho la patente) ma correvo in discesa. Come un pazzo. Si trattava di passare dai 511 metri di altitudine degli studi televisivi ai 273 di Lugano. Un po’ facevo le strade asfaltate e i sentieri tra casette, villette, giardini, piscine. Un po’ andavo dritto passando in mezzo ad alberi, arbusti, sterpaglie. Scavalcando ciò che c’era da scavalcare. Puntando tutto su ginocchia e gambe. Sulla forza di gravità. Senza fermarmi mai. Col rischio sempre implicito di incespicare e ruzzolare giù per qualche pendio e farmi anche molto male. Ma senza che mi accadesse mai. Finché non raggiungevo la strada che costeggiava il lago. Dopo di che, sudato, m’incamminavo a passo veloce verso la stazione per prendere il treno e tornare a casa a Locarno. Ciò che mi faceva correre ogni volta era il numinoso vento della libertà. Perché dopo un po’ che mi trovavo chiuso anche in un paradiso io mi sentivo in prigione e agognavo di tornare a respirare l’aria a pieni polmoni. E anche ora, che sono diventato più fragile e la mia buona stella s’è un po’ affievolita, corro ancora. Nei sogni notturni e in quelli diurni. Nell’anima. Sempre cercando lo sbocco verso una prateria senza confini. Perché solo purezza e libertà mi fanno piangere davvero di commozione. E, senza dubbio, l’amore (vero) che le contiene entrambe.

29 luglio 2019

Per l’eccitazione non chiusi occhio tutta la notte. Anche se a Parigi ero già stato in viaggio scolastico liceale. Mia mamma invece dormiva beatamente nella cuccetta del treno. Guardavo il buio fuori dal finestrino che lentamente veniva sostituito dai paesaggi di Francia immersi in un chiarore soffuso. Giunti a Parigi in stazione io e mia mamma bevemmo un cappuccino e mangiammo dei croissant. Io, da brava Vergine, avevo in testa l’intera rete metropolitana con i nomi delle fermate e avevo programmato tutto ciò che andava visto nella città-luna-park che è la Ville Lumière. Montmartre. Avenue des Champs-Élysées. Quartiere latino. Louvre. Museo d’Orsay. Ponti sulla Senna. Cattedrale di Notre-Dame. Negozi. Etc. Dalla stazione ci recammo all’albergo che era vicinissimo alla Tour Eiffel. Dopo aver lasciato i bagagli in camera ci recammo al Parc du Champ de Mars. Non c’era nessuno a parte noi e un individuo mattiniero in tenuta sportiva che faceva jogging. La luce era quasi dorata. C’era una pace sublime. Il tempo era immobile. Nell’aria aleggiava una promessa: qualunque bellezza era disponibile e si sarebbe manifestata. La perfezione del momento, che coincideva con una nascita interminabile, era tale che non poteva andare persa. E così anche oggi, al mio risveglio, a volte mi capita di respirare quell’alba di Parigi in compagnia di una mamma ancora buona, magica e adorata – quella del mondo che ritorna rinnovato, traboccante di vita e potenziali inebriamenti, dopo il breve e al contempo lungo inverno della notte.

29 luglio 2019

La ex ragazza del programma televisivo Non è la Rai era molto carina e simpatica. Era del segno del Toro. Aveva un caschetto di capelli medio-lunghi molto scuri. Ma io che ci facevo lì? in giacca e cravatta e i capelli pettinati all’indietro? Al tavolo di un ristorante all’aperto in una piazzetta tra le case antiche nella tiepida notte romana? In una sorta di grembo materno? (Ancora eterno, ignaro della morte, nella Città Eterna?) Così (l’ho capito troppo tardi) affascinante (e timido)? (La figlia di Mara Venier continuava a fissarmi e a sorridermi da un altro tavolo.) Quale Disegno mi aveva portato fino a quel luogo? A incontrare stravaganti persone – cantanti e attori – e a raccontare loro progetti artistici possibili (il presente me lo conferma) ma in anticipo rispetto ai tempi? Da dove venivo? chi ero? e dove andavo? (Gli eterni quesiti.) La mia vita è un libro esoterico traboccante di misteri. Se batto le mani una volta si aprono momenti passati assolutamente in contraddizione tra di loro. Se batto le mani due volte c’è il futuro. E probabilmente tutto – anche ciò che mi appare impossibile – può ancora accadere. Voglio ancora vedere, se è possibile.

 

29 luglio 2019

Eccoti qui. Con la luna piena gigante sopra il lago Maggiore che quasi curva l’acqua scura generando migliaia di scaglie di luce. (Tu gridi qualcosa per l’entusiasmo ed è un grido stregato e arcaico). Eccoti qui. Nella notte di festa nazionale svizzera di fuochi d’artificio. (C’è anche il mio professore di italiano del liceo che non mi vede perché rapito dallo spettacolo – da lui ho imparato tanto e lo ringrazio ancora.) Eccoti qui. A confermare i segni zodiacali che inesorabilmente ricorrono nella mia vita – nell’amicizia, nell’amore, nell’erotismo. Eccoti qui. Nelle notti interminabili dove il sacro è ciò che la gente dice erroneamente “profano”. Eccoti qui. A percorrere con me il cammino che porta dalla selva selvaggia e aspra e forte al divino. A tenermi la mano. Non lasciarmi la mano. Me la lasci. Sei lontano. Ma non davvero. Eccoti qui. Hai un altro nome e un altro volto. E tutto è sempre più a fuoco. L’amore è un fiume con le sue anse, il suo tormentato percorso. Ma alla fine sfocia nell’infinito.

30 luglio 2019

C’è stato un tempo in cui mi arrampicavo sempre sugli alberi. Per esempio sull’amareno con le sue ciliegie marasche che si trovava nel piccolo prato adiacente al palazzo in cui abitavo (il quale coerentemente si chiamava “Amarasca”). L’albero non era altissimo. Aveva rami piuttosto flessibili, un po’ fragili e a volte mi capitò di spezzarne qualcuno col mio peso. Strappavo golosamente dai rami i frutti rossi e aciduli. Non lontano da casa c’era un prato (che non esiste più oramai da tanto – “non so perché continuano a costruire le case, e non lasciano l’erba, non lasciano l’erba”) con un albero piuttosto alto. Anche su quello avevo l’abitudine di arrampicarmi. Salivo, e poi stavo tranquillo nel cuore della chioma a respirare il fogliame e a farmi coccolare dalla sua smeraldina protezione amniotica. Una volta mi successe di scivolare da un ramo e cadere. Per un attimo divenni cieco. Cadere nel vuoto è una sensazione quasi indescrivibile. Era come se mi fossi addormentato di colpo e stessi sognando. Ma dopo una caduta di circa due metri fui fermato da un ramo sottostante – mi ritrovai su di esso incredibilmente a cavalcioni, come una strega sul suo manico di scopa. Ora, qualcuno leggendo cosa sto per dire potrà pensare alla cosiddetta apofenia (cioè una connessione casuale senza alcun senso). Tuttavia, io non posso pensare che Qualcosa non mi avesse acchiappato e fatto fare una traiettoria perfetta per non farmi cadere a terra: rompermi l’osso del collo oppure la spina dorsale, finire su un sedia a rotelle o magari anche morire. (Mia mamma mi diceva sempre che ogni bambino e ragazzino ha un angelo custode che lo protegge e io penso proprio che sia stato così: un angelo mi ha salvato.) A volte andavo a Losone (non lontano da Locarno dove vivo). Lì c’era un albero di ciliege bellissimo, gigante, maestoso, altissimo. Il padrone dell’albero mi lasciava salire. Per raggiungere il ramo più basso era necessaria una scala. Una volta dentro la chioma, salivo, salivo, salivo. Che sensazione di libertà! Di respiro! Di comunanza con la natura! (L’uomo nel suo percorso evolutivo a un certo punto è sceso dagli alberi: forse ci dovrebbe tornare.) Attorno a me interminabili rami fronzuti con piccole pepite scarlatte, polpose, dolcissime – tante quanto le stelle in cielo. E io muovendomi come una scimmia le staccavo dai rami velocemente e avidamente, e le infilavo in un sacchetto. Avrei volute prendere tutto quel ben di Dio: chili e chili di preziosissimi frutti. Se fossi caduto da quelle altezze sarei sicuramente morto. Ma la mia consapevolezza del pericolo equivaleva a zero. (Ed ero sempre protetto dal Cielo.) (Ciò che non potevo sapere è che molto più tardi avrei utilizzato infinite volte in astrologia la metafora della radice e della chioma dell’albero per spiegare alle persone il segno e l’ascendente del loro tema natale astrologico.) L’albero è vivo. È una creatura straordinaria. A volte sogno un mondo senza uomini e persino senza animali. Solo farfalle e api per l’impollinazione. Un pianeta interamente ricoperto da foreste. Con fiumi, laghi, mari e oceani. Dove aleggia, potente, la presenza del divino. E la pace che provo, così sognando, è sublime. E di nuovo mi ritrovo immerso nel grembo verde frusciante attorniato da infiniti miracoli rossi.

30 luglio 2019

Quel giorno che mi hai lasciato a Milano, hai frantumato il mio cuore in mille pezzi. Perché decidesti così, non saprei esattamente. Tuttavia intuitivamente credo che tu abbia avuto ragione a farlo. Soffrire per amore non è nulla. Soffrire per amore è davvero dura. Eppure ricordo quel giorno di un inverno che non voleva ancora diventare primavera come se fosse una fiaba, un mito, una leggenda. Ma perché? Forse perché ci siamo baciati sotto la neve che scendeva. Ci siamo stretti forte. Forte. Forte. A lungo. Un addio per sempre. Abbiamo camminato sotto il bianco impazzito dell’aria gelida mano nella mano per le strade della città. E non c’è oroscopo che tenga. Né schema. Ragazzi miei. La vita trabocca, ti travolge, ti sorprende, non ha regola. E io ti amo ancora. Come amo tutte le donne e tutte le persone che ho amato. Perché una volta che amo è come se mi facessi un tatuaggio che non può più andare via. E perciò porto nel cuore un vagone d’amore. Amore per persone che sono impazzite, cambiate o semplicemente che il vento della vita ha fatto volare via come foglie. E questo amore è la mia debolezza. Ma paradossalmente anche il superpotere che mi guida nella vita.

1 agosto 2019

Guardando giù con la maschera subacquea era come se l’acqua di mare fosse stata aria liquida. Era perfettamente trasparente. Ero con mio padre. E galleggiavamo a circa 4 – 5 metri dal fondo di sabbia chiara, morbidamente ondulata. Facevamo un gioco: quando notavamo dei bei sassi o delle conchiglie depositate su quel tappeto zen di infiniti granelli, trattenevamo il fiato, scendevamo, acchiappavamo i piccoli tesori e poi tornavamo a galla. Eravamo in Spagna, sulla Costa Brava, soggiornavamo nel campeggio Cala Gogo. L’uomo non può volare davvero. Per quanto l’abbia sempre sognato. Ma in quel caso, stando a galla e osservando le profondità, sperimentavo certamente uno dei gesti più vicini al volo che possano essere concessi a un umano. A quei tempi il mio corpo contava poco. Era dilatato, sconfinato come l’azzurro attorno, sotto e sopra di me. Ed è così che da allora so per sempre che è possibile essere nuvola o rondine, delfino o alga, spiaggia o foresta, dio dei mari o fiore. Lo so e non lo dimentico. Perché anche questo è l’uomo. Soprattutto nell’infanzia. Ma anche da adulto, in certi momenti privilegiati. Un animale senza bene e senza male. Che dimentica se stesso. Che non vuole niente se non essere. Una creatura che sente l’immenso abbraccio del vento universale ed è perfettamente protetta e viva.

10 agosto 2019

Oggi qui a Locarno per ora è una giornata grigia, piove. Nella palazzina di fronte alla mia dall’altra parte della Piazzetta delle Corporazioni da cui si diramano 5 vie (in numerologia, numero del caos, della creatività e della magia), al primo piano, sopra il ristorante Casa del Popolo, attraverso la porta-finestra aperta senza tende vedo l’uomo di una certa età immerso nella luce gialla elettrica seduto davanti al suo tavolo e probabilmente al suo computer. Non ho mai capito cosa faccia. Ma so la sua precisa particolarità. Ogni volta che piove, ogni volta che non c’è il sole, lui appare nell’appartamento di prima mattina. E mai (rigorosamente) nelle belle giornate. E di pomeriggio. Mi fa pensare che il grigiore fuori gli permetta di raccogliersi, di concentrarsi bene (in qualunque sia la sua attività, per me sconosciuta). L’uomo che accende la luce nei giorni “tristi” e lavora. L’uomo che quando è assente percorre chissà quali misteriosi sentieri costeggiati da fiori, fiumi, erbe; nella luce capovolta.

10 agosto 2019

Le ragazze che scendono da nord per assistere al Festival del Cinema di Locarno hanno i capelli lunghi, lisci e biondi: sono vestite in modo semplice, essenziale, con colori tenui: attraversano l’acciottolato della Piazza Grande assorte e perse in qualche sogno cinematografico che lo schermo gigante posto nella piazza (il più grande d’Europa) renderà reale di notte sotto il cielo stellato. (Questa sera viene proiettato l’ultimo film di Tarantino.) Sono eteree, vaporose, sfumate. Parlano francese, tedesco o inglese. Mi fanno pensare a certe mie eroine: Kara Zor-El, Supergirl, o a Starlight della (bella) serie The Boys (sconsigliata dai creatori-produttori ai minori di 18 anni per i suoi contenuti violenti e immorali). Le ragazze-donne italiane – bisogna dire la verità – sono le più belle del mondo: nessuno le può battere. Ma queste ragazze evanescenti mi fanno pensare a un’assenza che mi fa scivolare in una presenza diversa: il mondo svanisce e anch’io non ci sono più.

11 agosto 2019

Il cielo sopra Locarno è color cobalto. Dopo il chiasso (per me piacevole) del sabato sera (dei locarnesi e dei turisti sotto casa che affollavano il ristorante Casa del Popolo) il silenzio del primo mattino sembra quasi innaturale. Persino i passeri sono stranamente silenziosi. La luce lecca qua e là le facciate delle palazzine. Poi ritira la sua lingua. Non importa quanto presto io possa alzarmi: l’uomo del chiosco è già lì. È il primo ad apparire. È lì da sempre. (Forse è presente anche di notte.) Il Chiosco Piazzetta è il suo castello. La piazzetta è il suo regno. Come per ogni re (fiabesco) ogni giorno è essenzialmente lo stesso, la sua azione è la medesima, con variazioni sul tema musicale del tempo. Dà sempre da mangiare (briciole di pane) ai passeri, suo popolo alato. Scaccia i piccioni. (Il regnante fa scelte precise, discrimina, è magnanimo, certo, ma con chi decide lui: nessuno può imporgli una volontà diversa dalla sua.) Arriva lo spazzino vestito d’arancione. Inizia a piovere. Il cielo sopra Locarno è grigio. Non piove più. Il cielo è nuvoloso. I passeri un po’ meno intimiditi cinguettano debolmente. La gente ultimamente (gentilmente) mi chiede come sto e se dico Bene pensano (forse) Strano. È semplice: io ho una natura ambivalente. Mercuriale. Sono (tecnicamente) in pericolo e al contempo fuori pericolo e dalla morte sfiorata traggo vita. Sono sempre stanco perché lavoro senza sosta ma sono inarrestabile come una macchina (questa è la Vergine). (Do (heideggerianamente) importanza a ogni gesto, ora più che mai, perché il tempo ha un suo limite.) La luce divampa nella piazzetta: tutto è illuminato. Anche oggi, se ci riuscirò, raccoglierò scintille di luce (quelle che secondo la Kabbalah si dispersero nell’universo dopo la frantumazione dei vasi divini; le trovi in un cassetto tra i calzini, aprendo un ombrello, sotto un libro o un sasso) e cercherò di infilarle nelle mie spiegazioni. Per ogni individuo c’è la scintilla giusta, personalizzata – unica come è unico ogni fiocco di neve. (E ciò che penso è che si rimane ragazzi finché pensi testardamente (irragionevolmente) di poter (contribuire a) salvare il mondo. Sento la voce del proprietario del ristorante Casa del Popolo: voce naturalmente amplificata che si espande in tutta la piazzetta. Nei suoi discorsi ci sono elementi ricorrenti: «Mia moglie (…)». (Evidentemente è un suo punto di riferimento essenziale.) Ride spesso abbondantemente (la sua risata è un “marchio di fabbrica” della Città Vecchia). Un suo saluto ricorrente che sento da anni rivolto alle passanti di qualsiasi età è: «Ciao, bambina!». Il cielo è indeciso su cosa fare. I passeri tacciono. Il campanile batte le ore. Ho trovato una Scintilla nel contenitore di Ovomaltina.

12 agosto 2019

Alle sei del mattino il silenzio è assoluto. (È inutile: l’uomo del chiosco è già lì. Non potrò mai sorprenderlo nella sua assenza! Accende l’insegna al neon della Coca-Cola perché è ancora un po’ buio e la spegne poco dopo). Anche la Casa del Popolo è già sveglia: vedo l’interno del ristorante immerso nella luce gialla attraverso le ampie vetrate. Il proprietario Alì con la sua voce naturalmente amplificata e ulteriormente dilatata dalla cassa di risonanza della piazzetta dice (già) qualcosa: preludio di una giornata di grasse risate, di “Ciao ragazzi!”, “Ciao bambina!”, “Buon lavoro!”, “Mia moglie (…)”. Generalmente un po’ prima delle sette la campana (registrata) del campanile della chiesa di s. Antonio “suona a morto” come per dire: “Siete come morti ma non temiate: veglio su di voi: vi sveglio io pian piano: state per risorgere”. Oggi non si fa vivo. Strano. Fino alle otto e mezza le ore battono normalmente. Poi un po’ prima delle nove il silenzio della Città Vecchia è infranto dallo scampanio della chiesa s. Maria Assunta che ogni volta ti coglie di sorpresa nonostante la sua precisa ripetitività – è una chiesetta a quattro passi da casa mia che a me piace frequentare quando è vuota. «Le campane incarnano la voce di Dio» ho sentito dire una volta da un prete. Esagerava, certo, trasportato da (vera o presunta) poetica esaltazione religiosa. Comunque è una bella immagine. Lo scampanio dice: “Su, gente, adesso è proprio tempo di essere perfettamente svegli! siate felici del nuovo giorno!”. Le campane festeggiano il giorno che torna. (La parola “festa” è relazionabile a “phòs” cioè “luce”. E la parola “festa” rimanda etimologicamente a Estia (per i greci) o Vesta (per i romani), dea del focolare, che teneva acceso il fuoco sacro della città attraverso la vestale: la sacerdotessa che incarnava la dea. “Festa” in definitiva significa: giorno di gioia.) Lunedì come ogni giorno è un giorno di festa. Perché è nuovo di zecca. Regalato. Inaudito. Impossibile, eppure vero. Per il pomeriggio qui a Locarno sono previsti violenti temporali (per cui è stata diramata un’allerta, pericolo di grado 3). Io penso alle ore di questo giorno d’agosto (mese per eccellenza del Sole) e le sento già da ora tintinnare e splendere: irradiare la loro potenza divina. 9:15: piove a dirotto. (L’uomo che si mostra nella palazzina di fronte a casa mia solo quando è brutto tempo e che vedo attraverso la sua porta-finestra aperta senza tende – com’è inevitabile – appare.) 9:20: occhiate di sole. (L’Uomo Che Appare Nei Giorni Grigi scompare). Tutto si muove. E io sono felice di ogni mo(vi)mento.

12 agosto 2019

Sulla RSI (canale televisivo della Svizzera italiana) danno il film italiano Perfetti sconosciuti. Ad un cena, degli amici giocano ad ascoltare le telefonate dei cellulari di tutti. Dalla commedia si vira alla tragedia. Nel mio caso non ci sarebbe problema: il mio telefono coincide con l’azzurro del cielo o la volta stellata. La mia popolazione interiore junghiana contiene anche tutte le persone a cui leggo la mappa interiore. È un villaggio. Anzi una metropoli. Anzi una nazione. Ma di notte sogno solo parenti stretti e raramente qualcun altro. Ogni giorno una stella si spegne, forse qualcuno smette di amarmi. Qualcuno mi detesta in YouTube (1 su 1000) e devo bloccarlo. Ogni giorno una stella s’accende, forse una nuova persona decide di amarmi. Domani, ragazza, ci alzeremo presto e andremo dove si diradano le case e le strade, dove s’apre la prateria, dove si vedono le montagne lontane all’orizzonte con le cime innevate che bucano nuvole rosa, correremo, ci lasceremo cadere, rotoleremo sull’erba e rideremo. Tu riderai delle cose stupide che ti dirò e io delle tue smorfie. Ti tirerai i capelli in su e sarai ancora più bella. Guarderai il cielo immenso con occhi sognanti, gli uccelli indecifrabili che volano altissimi; cammineremo nella pianura infinita fino ad essere esausti e felici: troveremo la fonte dell’amore, dei segreti delle cose. Mano nella mano, entreremo finalmente nel mondo.

13 agosto 2019

Questa notte ho sognato mio cugino Fabián (Toro), figlio di una delle sorelle di mia madre (Acquario) che abita a Valencia come molti altri miei parenti. Ricordo che da ragazzini un giorno inforcammo le biciclette con addosso solo il costume da bagno e scarpe da ginnastica, e dal campeggio El Saler (vicino a Valencia) dove stavamo trascorrendo le vacanze estive iniziammo a percorrere la strada stretta e tortuosa costeggiata da fitti canneti che attraversava il Parque Natural de la Albufera (con la sua laguna di acqua dolce, la sua rigogliosa flora e fauna, in particolare volatili di moltissime specie, le risaie; è il luogo dove è nata la paella valenciana; ed è territorio giustamente protetto per la sua magnifica biodiversità). Pedalando incessantemente, indifferenti al pericolo delle automobili sfreccianti come bolidi che sbucavano all’improvviso da dietro una curva quasi sfiorandoci, arrivammo al piccolo borgo El Perelló, situato sempre sulla costa, che si trovava a una decina di chilometri di distanza da El Saler (qualche anno prima lì ci avevo passato una vacanza in un appartamento vicinissimo alla spiaggia condiviso da mia mamma e sua sorella Pilar, Gemelli). Esaltati da questa nostra impresa decidemmo che il giorno dopo avremmo caricato sui nostri leggeri mezzi di locomozione cibo e acqua per un progetto ancora più eccitante: raggiungere Cullera, altra cittadina marittima (molto bella), che si trovava a una cinquantina di chilometri da El Saler. Saremmo partiti all’alba. Quando al ritorno parlammo di questa nostra iniziativa al padre di mio cugino (mio zio ecuadoriano, Ariete), ce lo proibì recisamente. Ci disse che non ci rendevamo minimamente conto del pericolo che correvamo. Che di andare così lontano proprio non se ne parlava. E ci sottrasse le biciclette. Mio zio naturalmente aveva ragione. Ma noi eravamo ragazzini protetti dall’onda del mare (da Nettuno) e dal cielo abbagliante (Urano), inconsapevoli, scriteriati e quindi radicalmente coraggiosi. Immortali. (La Morte era un Babau degli adulti.) La nostra avventura fu troncata sul nascere. Ora. Crescendo si perde il ragazzino e la morte diventa una cosa seria. Da esorcizzare, pensandoci il meno possibile (quindi non affrontandola veramente; il che è negativo poiché rimuovere i mostri è psicologicamente molto pericoloso: per ammansirli vanno guardati negli occhi), utilizzando fantasia, miti, leggende, fiabe (religioni) oppure la ragione (filosofia). L’uomo è un animale complicato e psicologicamente debole. Il pensiero della morte da un certo punto in poi della sua vita lo insegue come un ombra non lasciandolo in pace. Non può farci niente. La Natura l’ha costruito così. Comunque a volte succede anche da adulto che in un giorno di luce accecante d’agosto, magari al mare, in vacanza, in mezzo alla natura, dimentichi tutto, la vita e la morte. Perché la felicità e la libertà che provi vanno oltre questa (misera) opposizione. Sono momenti privilegiati. Il ragazzino si ripresenta. Guardi verso l’alto con gli occhi protetti da occhiali scuri o strizzandoli. Il momento coincide con l’eternità. E se provi questa sensazione, ti appartiene – è reale. Il Sole splendente lassù è un Padre protettivo e magnanimo. Ti assicura che tu sei il suo figlio prediletto. Niente di male (ti) può accadere. E questa (nonostante ripensandoci poi la troverai un’idea irragionevole) è la pura (mistica, sacra) verità.

13 agosto 2019

Ogni giorno, quando eravamo in città (Valencia), io e mio cugino Fabián (Toro) al mattino chiedevamo ai nostri genitori un po’ di pesetas. Con queste ci recavamo in un negozio non lontano da casa per comperare delle particolari aceitunas piquantes (olive piccanti) che ci piacevo moltissimo e che poi estraendole dal loro cartoccio mangiavamo felici camminando per le strade della città. Apparentemente, invecchiando, perdi la potenza dei sensi. Mangiare quelle olive era un evento di godimento puro, estatico. Difficile da ritrovare da adulti. Tuttavia non è impossibile. Io cerco sempre le mie olive piccanti che mi riportino a Valencia con mio cugino, quando il gusto, i sensi erano esaltati – e bastava così poco per essere felici. Vuoi farmi un regalo? Dammi olive piccanti.

13 agosto 2019

D’estate io e la mia amica, compagna di scuola alle medie di Locarno e che abitava nel mio stesso palazzo, nel cortile sotto casa giocavamo a badminton. Il nostro gioco consisteva nel non fare mai cadere il volano e contare i colpi che gli davamo con la racchetta. Ogni volta si trattava di stabilire un record. Eravamo bravi e quindi andavamo avanti per ore e ore. Il sole tramontava. Si faceva notte. Noi continuavamo. L’estate non finiva mai. Né il tempo (sospeso nell’aria come il volano). E niente è ancora finito.

13 agosto 2019

Attorno alle 7:30 spesso sento qualcuno fischiettare sotto casa. (Qualche giorno fa fischiettava il motivetto del film Kill Bill.) Suppongo sia qualcuno che si alza presto per lavorare forse in un ristorante. Le neuroscienze dicono che noi possiamo ingannare il nostro cervello. Se ridiamo con un certa convinzione o ci guardiamo alla specchio sfoggiando un sorriso, anche se non abbiamo particolari motivi per farlo o addirittura siamo tristi, il cervello “pensa” che siamo contenti e produce i neurotrasmettitori relazionati alla contentezza. Di conseguenza il nostro grado di contentezza, benessere aumenta. Anche fare qualche passo di danza, saltellare, piroettare, dice alla mente-corpo che va tutto bene. Il lavoratore, che si appresta ad affrontare la giornata con tutti i suoi imprevisti e difficoltà, fa bene a fischiettare (si fischietta generalmente quando si è allegri e sovrappensiero; è un preciso segno di leggerezza): che la giornata assomigli a quel fischiettare: gli, mi, vi sia propizia.

14 agosto 2019

D’estate, io e gli altri bambini che abitavamo nel mio stesso palazzo, con le biciclette, le luci accese, facevamo il giro del cortile sotto casa invaso dal nero della notte. Era un girotondo velocissimo. Infinito. Ipnotico. Irragionevole. Una forma di meditazione. Ma chi sapeva si trattasse di ciò? Non l’avremmo capito neanche se ce l’avessero spiegato. Senza religioni né filosofie eravamo degli illuminati.

16 agosto 2019

Io e mia sorella N ci divertivamo ad attribuire un segno zodiacale alle diverse specie di volatili. I passeri, così svelti, furbetti e socievoli (salivano anche sui tavolini dei ristoranti all’aperto a beccare briciole di biscotti) erano certamente dei Gemelli. I cigni nel lago, maestosi, fieri, del Leone. I gabbiani, intelligenti, agili, attenti, dell’Acquario. E via dicendo. Io ho sempre avuto un rapporto d’amore e di grande interesse nei confronti dei volatili. Da piccolo mi fermavo sempre davanti a un recinto di una strada che percorrevo spesso per osservare a lungo le galline nel loro pollaio. A me piacevano. E in molti casi gettavo loro pezzetti di pane secco. Nella mia vita ho raccolto da terra innumerevoli uccelli feriti, soprattutto con un’ala spezzata: rondoni, passeri, gabbiani, telefonando subito dopo alla Società Protezione Animali di Locarno che interveniva prontamente arrivando con un furgone in cui l’animale veniva caricato per essere poi portato da un veterinario che lo curava se ciò era possibile. L’impresa più difficile fu una volta prendere un cigno con un’ala rotta che stava sulla riva inclinata di pietra di Ascona, cittadina non lontana da Locarno. (Erano i tempi delle lunghissime passeggiate con mia sorella N, ed ero assieme a lei.) Se tentavo di avvicinami a lui, il cigno scappava gettandosi nell’acqua del lago nuotando per un po’. Se mi allontanavo, tornava a riva: era troppo debole per andarsene veramente. Io quindi adottai una strategia: rimasi per alcuni minuti a qualche metro da lui perfettamente immobile. Come una statua. (Il che certamente distrasse la sua attenzione da me; dal suo punto di vista probabilmente divenni quasi invisibile.) Poi ad un certo punto, con uno scatto improvviso, iniziai a correre il più velocemente possibile verso di lui e lo acchiappai, stringendolo molto bene per non farmelo sfuggire. Mentre io e mi sorella aspettavamo che arrivasse il furgone della Protezione Animali il cigno mi afferrò una mano nella morsa del suo becco senza lasciarmela andare neanche per un secondo. (Il cigno naturalmente non sapeva che io volessi aiutarlo: io ero solo un nemico.) Un rivolo copioso di sangue sgorgava dalla mia mano. Così fu per una quarantina di minuti o di più. Ma il dolore era il prezzo giusto da pagare. Perché in nome del volo di un animale, di uomo o di qualunque altra cosa è anche giusto soffrire. Se è necessario pagare un prezzo per la Bellezza e la Libertà io sono disposto a pagarlo.

17 agosto 2019

Io e mio padre (Sagittario) nuotavamo nella baia di Cullera, comunità di Valencia, Spagna. Era in corso un temporale, nel mare non c’erano altri bagnanti al di fuori di noi e la spiaggia era deserta. Ma che importava? L’acqua era cristallina e calmissima. Immergendoci senza maschere subacquee trovavamo una dimensione di pace profonda; il soffitto liquido sopra di noi era picchiettato dalla pioggia incessante e sottile. E se è vero ciò che hanno pensato Einstein (fisicamente-matematicamente), Emanuele Severino (filosoficamente) e in definitiva pure Proust (poeticamente-filosoficamente) quel momento non è mai andato perduto – è ancora qui, vivo, da qualche parte. Ma – va detto – le implicazione del loro pensiero non sono umanamente piacevoli. E oltre tutto c’è molto passato nefasto (soggettivo e collettivo) che sarebbe meglio non sia mai esistito – da cancellare. È quindi è augurabile che si siano sbagliati. Io, questa mattina, mi sono svegliato con in testa una teoria antiscientifica, forse magica, banale (apparentemente), se si vuole: il tempo è nel ricordo. Relazionato al primo segno dell’estate, il Cancro. Com’è risaputo “ricordare” significa “riportare nel cuore”. Ciò che io riporto nel cuore è reale. Secondo: il tempo tutto, il passato, è eterno: è dentro di noi, come vuole – senza nostalgie – il segno del Leone: il segno del tempo immobile. Terzo: il tempo lo conserva nei cassetti della mente il segno della Vergine: l’ultimo dell’estate che si occupa di trattenere tutto ciò che ha valore. Quindi il passato non è perduto. Ma soltanto perché è compreso nella nostra memoria e perché noi lo facciamo (volontariamente o no) risorgere. Mio padre è ancora giovane e nuota come me nel nirvana del mare spagnolo di Cullera – non c’è dubbio. In francese “imparare a memoria” si dice apprendre par coeur. Cioè imparare per mezzo del cuore. E così è assolutamente per me. Perché tutto ciò che ricordo e so ha attraversato prima il filtro del mio cuore – solo in un secondo tempo l’ho razionalizzato. Agli altri non sembrerà – forse – ma io nel mio fondamento sono assolutamente istintivo – una pianta, un animale. Sono il pesce (la creatura marina) che percorrendo in un istante tutta l’evoluzione esce dal mare della baia di Cullera e gli spuntano le zampe-gambe per camminare sulla terraferma. Fuori dall’acqua calda – una coperta liquida – è quasi freddo. (Io tra l’altro sono freddoloso.) Tremo un po’. Sono bagnato d’acqua salata e l’acqua dolce e fredda scende dal cielo su di me. Mia madre mi avvolge con un asciugamano. L’estate declina. L’estate non può finire. Tutto l’oro di tutte le estati sono nella grotta del mio cuore. Sfavilla. E come torcia mi guiderà – illuminando il mio percorso autunnale e invernale.

21 agosto 2019

La bambinetta moscerino biondo dall’aria simpatica alla cassa del supermercato guarda le caramelle e i chewing gum (posti lì in quel punto, è chiaro, strategicamente per la vendita) e dice (indiretta e speranzosa) alla mamma: «Sono buone quelle gomme alla vaniglia, vero?». La mamma che paga la spesa biascica: «Msì, sì… mh, mh». E niente: non le compera nulla. Ma, santo cielo: comperate le caramelle ai bambini! Mia sorella N da bambina ha fatto un’alimentazione a base di gelati e “porcherie” (nostra madre in tal senso era molto permissiva) ed è cresciuta sanissima. Una caratteristica (assurda, surreale) di mia sorella N è che non ha mai avuto le tipiche malattie infantili: morbillo, orecchioni etc. Ed è sempre stata una roccia. Lavora al casinò come croupier con orari assurdi ed è resistentissima. Certo, sarà un caso. Ma visto che mangiamo tutti quanti cibi inquinati e respiriamo in ogni momento aria carica di biossido di carbonio, cosa vuoi che sia, ad esempio, un verme di gomma colorato zuccheroso artificiale simpatico e divertente? Poi, fai lavare i denti alla tua figlioletta minuscola magra magra dai capelli biondi. (E obbligala pure a mangiare quelle verdure che tanto le fanno bene ma che le fanno anche molto schifo.) Ma ogni tanto rendila felice, dai! (Sennò – guarda – poi arriva il Cattivo della serie horror NOS4A2 che ti porta via il figlio per regalargli un mondo di eterno Natale ma dove i bambini diventano mostri. E ti elimina. Guarda la serie e riflettici bene, mamma.)

21 agosto 2019

Ad Ascona mentre mangiamo la pizza nel ristorante all’aperto mia sorella Nathalie mi dice: «Un mio collega della Vergine mi dice che quando era giovane aveva molte certezze; più passa il tempo, invece, e più ha dubbi. Io, tra l’altro, quando ero piccola e ragazza ero moralista. E grazie a ciò avevo anche troppe certezze». Io le dico: «Anch’io da ragazzo ero un moralista. Una vera Vergine. (“M”, simbolo della Vergine, come moralismo.) Ma ora non più. Cosa pensi del poliamore? Cosa pensi della pansessualità? Degli omosessuali con figli adottati? Certo, una parte di me rimane ancora legata alle fiabe disneyane. Istintivamente. Ma concettualmente amo tutto ciò che va oltre». (Ne discutiamo.) «Be’, anch’io, pensandoci, considero che tutto ciò vada bene. Con mio marito discuto a volte di questi temi e lui ha idee molto più tradizionali.» «Per quel che riguarda i dubbi» le dico, «col tempo, al contrario, io li ho in gran parte superati. E grazie a Dio! Perché da bambino e da ragazzo vivevo nella confusione, nell’angoscia (heideggeriana; filosoficamente importante quanto vuoi, però cavoli!) e soffrivo chiedendomi cosa fosse l’esistenza. E adesso lo so? No. (C’è qualcuno forse che lo sa veramente?) Tuttavia, oggi ho tanti elementi in più: parametri, visioni di pensatori, filosofi e scienziati e il mio cammino di riflessione personale profonda di una vita intera che mi permettono di avere le idee più in chiaro. Sono molto più sereno. Conosco il mio daimon (nodo lunare astrologico, “diventa te stesso nietzscheano”, desiderio lacaniano) e grazie ad esso attraverso le tempeste. Nel bene e nel male so chi sono e dove voglio andare». N: «Ciò è molto bello». E la notte si addensa. La pizza è buona. Mia sorella è fantastica.

21 agosto 2019

Quando il mare era in burrasca e tutti i bagnanti scappavano via e sulla spiaggia deserta sventolava la bandiera rossa, quello era il momento migliore per entrare nel mare di Valencia. Io nuotavo più al largo che potevo, contrastando la corrente, i mulinelli, e scalando le onde prima che si innalzassero troppo e divenissero un muro invalicabile. Poi salivo su un cavallone; usavo il mio corpo come una tavola da surf. Cavalcavo la cima dell’onda schiumeggiante. Praticamente volavo. Il flutto si infrangeva e mantenendo il mio corpo dritto come una freccia sfrecciavo sotto l’acqua ribollente trattenendo il fiato, cieco, trasportato fin quasi sulla battigia. A volte succedeva che mi graffiassi o mi ferissi il ventre e le gambe con i sassi del fondo marino. In quei casi mia madre o qualcun altro intervenivano a medicarmi. (Io soprattutto da bambino e da adolescente (ma non solo) sono stato spesso scriteriato e spericolato. Un animale che si rapportava alla natura e alle cose attorno a sé come appunto lo fa un animale.) Ma cosa vuoi che fosse una gamba sanguinante? Un piccolo prezzo da pagare – un’inezia – per essere stato per un po’ Nettuno, il re dei mari.

24 agosto 2019

Milioni di parole e di pensieri. Fatti tragici, fatti qualsiasi (ma ce ne sono poi davvero?), fatti belli. Ma prima di dormire ricordo solo l’amore che ho dato e quello che ho ricevuto. In tutta la mia vita. Durante la giornata finita. E poi il sole di polline torna a salire. Io mi alzo assieme a lui e bevo la luce d’ambra. Con in testa i miei sogni trasparenti come ali d’ape. Più tardi scenderò dalla Città Vecchia in Piazza Grande e come sempre darò un’occhiata al chiusino del vicolo della Motta forato come un favo – una sorta di talismano. È un nuovo giorno per bottinare – accumulare nettare nel cuore. Perché c’è miele da produrre. Perché ho speranza. Perché, come un bambino, sento che fin che c’è vita c’è sempre e ancora favola.

26 agosto 2019

All’inizio condividevo l’appartamento in cui abito ancora adesso con mia sorella N. Quando era necessario, mia sorella mi tagliava i capelli. (Non è una parrucchiera, ma ha una grande abilità manuale come un po’ tutti in famiglia: nostra nonna materna era sarta, mia mamma era parrucchiera. Da bambina mia sorella N confezionava abiti davvero molto originali per sé e per le Barbie usando stoffe, forbici, fili e aghi; io ho imparato da solo tutte le arti visive: fumetto, acquerello, olio, murale, etc.) Una volta Nathalie mi tagliò i capelli in soggiorno. I capelli che caddero per terra li radunammo in un monticello. Li lasciammo lì per un’infinità di tempo. Li chiamavamo L’Isoletta Zen. Ora. Voi mi direte: ma che senso ha? Uno: nessuno. Questo è il bello di noi due. Siamo della Vergine, quindi (si suppone) analitici e precisi. Ma anche “pazzi” (vedi il mio video in YouTube Il Paradosso della Vergine). Un giorno mi recai nello studio di arte contemporanea di Cristina Del Ponte che c’era qui in Città Vecchia per vedere una mostra. In un punto sul suolo di un locale c’era un monticello di grafite (installazione artistica). Io raccontai alla Del Ponte dell’Isoletta Zen, paragonandola al mucchietto di grafite. Dall’espressione del suo volto capii che la cosa non le faceva per niente piacere. Insomma (mi resi conto che) io e mia sorella eravamo artisti contemporanei, forse potenziale concorrenza e (questo era il punto davvero dolente per l’espositrice), senza neanche averne l’intenzione.

26 agosto 2019

Certo. Finiremo. Per via della foresta amazzonica che brucia e a causa del surriscaldamento climatico. Ma non c’è fretta. Mangiamo ancora una pizza. Beviamo ancora un bicchiere di vino bianco. Facciamo ancora l’amore. Dimmi che mi ami. (Io te lo dico, eh?!.) Il tempo si dilata e, come nel paradosso di Zenone in cui Achille non riuscirà mai a superare la tartaruga nella gara di corsa, la Fine non ci raggiunge mai.

26 agosto 2019

Mia sorella N (Vergine) da piccola si confezionava abiti su misura. Indossava gonne che parevano corolle di fiori coloratissimi e top en pendant. Aveva un Salone di Bellezza per Cani & Gatti (e al limite per persone) che chiamava “Miss Paris” (pronunciato come si legge). Un cliente abituale del suo salone era il nostro gatto Rambo (Capricorno) dal carattere docilissimo. Lei gli infilava in testa berrettini e lo vestiva in vari modi. “Lo faceva bello”. E lui non faceva una piega. Mia sorella a volte dormiva per terra su una coperta, i capelli lunghi nerissimi aggrovigliati sparsi su un cuscino. Rambo la vedeva, la raggiungeva, si metteva di fianco alla sua mamma-estetista e s’addormentava con la testolina grigio-bianca appoggiata sullo stesso cuscino.

29 agosto 2019

Mi hai fatto questo scherzo, vita. Mi hai messo qui tra inferno e paradiso, tra mari e montagne, tra centro dell’Europa e la Spagna, tra centinaia di fumetti e filosofia, tra ragione e magia, tra la violenza del mondo e pelli vellutate di ragazze, tra saggia infanzia e invecchiare giocoso, tra la verità da cercare e ignoranza da far scintillare, tra l’era dei dinosauri e quella inaudita che verrà (e qui tutti chiacchierano chiacchierano per paura di svanire, ma cosa sia tutto questo in ultima analisi nessuno lo sa) e tra cinque giorni faccio un altro giro di giostra: tutte le luci colorate splendono nella notte.

1 settembre 2019

Guardo l’Edificio del Reloj del porto di Valencia. Ovunque io sia – per orientarmi –basta che pensi a questo punto di fronte al mare. Poi faccio un tratto di Avenida del Puerto. Ed è di nuovo quella torrida notte di settembre. All’1:43 m’affaccio a quest’ Enigma. E misteriosamente io inizio a essere io.

2 settembre 2019

Incontro il mio vicino di casa che una volta studiava la Cabala Ebraica (e che ultimamente ascolta sempre Battiato) mentre cammino verso il punto di raccolta di rifiuti lungo la via delle Corporazioni con il sacco ufficiale della spazzatura color azzurro con lo stemma del leone rampante della città di Locarno. Gli dico: «Sei mattiniero!». Lui mi dice: «Cerco di evitare la notte. L’altro giorno ero strafatto, avevo bevuto molta birra, in città c’è uno che mi ha malmenato e mi ha pure puntato un coltello in gola». Io gli dico: «Cavoli! Ti ha fatto molto male? Ho l’impressione che tu abbia rischiato di grosso!». (Glielo leggo nel volto). Lui mi dice: «Sì. Dopo questo evento ho deciso volontariamente di internarmi nell’ospedale psichiatrico di Mendrisio. E non voglio più uscire di notte. È pericoloso». Io: «Certo, lascia perdere! C’è in giro gente folle! Da dove arrivi ora?». Lui: «Mi sono alzato alle cinque del mattino e ho fatto una lunga camminata: sono andato fino alla Migros di Tenero (che è distante dalla Città Vecchia dove ci troviamo 9 chilometri e mezzo) e poi ora sono tornato». Io: «Wow. Bravo! Davvero una camminata salutare!». Poi mi dice: «Ti regalo un fiore. (Quello che ha in mano.) Hare Krishna!». Lui non lo sa: ma mi fa un regalo per il mio compleanno. E se sta male non è colpa sua. Lui è una persona che soffre perché è sensibile e intelligente. È il mondo che è un inferno. Buona fortuna vicino di casa! Resisti.

6 settembre 2019

Amo la purezza, l’innocenza, la trascendenza, il vento, Sophia, l’amore hollywoodiano che a volte c’è anche tra le pieghe della vita, il mistero (che per me è il divino), la mia capacità di tessere ragnatele con la mente e di connettere molte cose diverse, la mia voce, il giro di giostra delle stagioni, le luci nella notte, il Natale, i ragazzi incasinati che contengono tutte le possibilità, le mie sorelle, “zucchero, cannella ed ogni cosa bella”.

8 settembre 2019

Di notte, adolescente, all’Isola d’Elba, a Portoferraio, per cena mangiavo spaghetti e per dessert palline di melone in mousse alla ricotta. Di giorno in una spiaggetta dell’isola leggevo ad alta voce per la mia famiglia allargata Angeli in astronave. Erano tempi così, in cui credevo in cose assurde. Ma anche oggi io, e tutti noi, crediamo in cose senza senso. Ne abbiamo bisogno per dare un significato alla vita. Cosa sia vero, solo il vero lo sa. Alla fine basta essere felici, no? Quindi credi a ciò che ti rende felice. All’isola d’Elba dentro il buio guardavo il mare nero gigante, ascoltavo il suo sciabordare. E sognavo l’amore. L’amore l’ho vissuto. Ma di quello autentico fino in fondo ho solo trovato alcune scintille della sua esistenza tra le pieghe della mia vita. Se possa essere eterno non lo so. Ditemelo voi. Non lo escludo. Ma di certo non conosco coppie da molto tempo insieme davvero felici. So solo di coppie punto. Ma in sé c’è. Questo è certo. È un po’ come il divino. Ama giocare a nascondino. Ma basta un segno. Non so, un arcobaleno. Una giornata estiva di luce che ti porta via. Quella notte del 24 dicembre in cui io e mia sorella N camminavamo per le strade di Locarno e all’improvviso iniziò a nevicare dolcemente. E allora sai che l’amore in tutti i sensi e il divino esistono eccome.

9 settembre 2019

Mangiavo una paella vegetariana con mio cugino Miguel (Vergine. ascendente Sagittario) di fronte al mare di Valencia. Praticamente sulla spiaggia – non lontano dal porto; dal luogo dove sono nato. A Valencia fanno la paella migliore del mondo. Io sono (solo) questo: il Mediterraneo, il calore, la paella. l’horchata, bevanda che bevi unicamente in Spagna e in particolare a Valencia – spremuta di piccoli tuberi, las chufas, che crescono nei campi attorno alla città e in parte importate dall’Africa. Spiegare il gusto della bevanda è come dire com’è la Coca-Cola a chi non l’ha mai bevuta. Impossibile. Per me è il latte di mamma-Valencia. Tante volte la sogno di notte. E se torno a Valencia è anche solo per berla. Io sono l’intenso profumo di fiori che senti quando a maggio scendi dall’aereo nella mia città. E ti travolge.

9 settembre 2019

Nella notte, seduti sulla panchina di legno davanti al lago Maggiore, ti facevo non so quali discorsi astrusi sull’amore per convincerti. Poi senza che tu mi dicessi niente, senza che io ti dicessi più niente, ci siamo alzati e ci siamo dati la mano, abbiamo attraversato la Piazza Grande con i suoi rimasugli d’estate e di musica. Per me quello era amore. Una scintilla di luce nell’universo infinito. E tutto, anche l’insensato, all’improvviso aveva assunto un senso.

10 settembre 2019

Ho smesso di credere nell’amore, nella settima casa dell’oroscopo, Saturno che razionalizza Venere, perché credo nel tuo corpo come un fiore, le mie mani come api, nei baci d’estate al mare dei ragazzi, nel “fuoco di paglia” che non smette mai di bruciare, nel non conoscersi mai davvero, essere mistero e perciò divini l’uno per l’altra, ho smesso di credere in Dio, perché, dai, sta facendo vacanze a Honolulu da un’eternità, c’è Auschwitz e sbadiglia, ho smesso di crederci per credere a una divinità immensamente più grande, che se la capisci, bene, se non la capisci, pazienza, ho smesso di credere nelle verità dette per tradizione, educazione, in uno stato ipnotico, al lavoro o davanti al televisore, ho smesso di credere alla fine, perché la Natura non la conosce, perché c’è un progetto che non è un progetto ma è vita e la vita ora ti prende e non ti molla più.

18 settembre 2019

Generalmente ragiono piuttosto bene. È una questione di esercizio. E se ho un milione di pianeti in Cancro non è colpa mia. Altro che il sesso. Il vero rimosso è il sentimento. E io non lo rimuovo per niente. L’algoritmo della rete, evidentemente, ha capito come dovrebbe vestire una donna secondo me: da strega (simpatica). Ciò che non può sapere è che io metto sullo stesso piano pop star, soprattutto donne, e filosofi viventi. Troppo difficile. Troppo contraddittorio. Come il mio bisogno di bruciare dentro l’estate e nel grigiore di dicembre, quando regalo al bambino divino dentro di me il Natale perché se lo merita.

25 settembre 2019

Ai tempi di Avril ho perso tutto, ho cambiato vita, direzione, ho ricominciato da zero. Dicevano che il 2000 sarebbe stata la fine e l’inizio, ed era vero. Ero ancora un ragazzo. E ancora lo sono. Nel 2000 sono venuto a vivere nel cuore della Città Vecchia con mia sorella N. A quei tempi ho iniziato a ragionare sul serio, anche se ragionavo benissimo e molto anche prima. Ho pensato che la pop star donna fosse un ponte. Ho pensato al Ponte. Ho sognato un ponte. Ho cercato di camminarci sopra. Ci ho camminato. Ho visto l’abisso sotto. Me ne sono rallegrato. Nel 2007 ho visto Avril in Piazza Grande. A quei tempi pensavo (circa) ancora di essere immortale. Oggi no. Diventare grandi è noioso. Ma splendo ancora dentro il Natale quando arriva. E il divino aleggia nelle strade della città più di prima.